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ASSUMERE UN RISCHIO

Qualche tempo fa, girava in rete un video dove si raccontavano, in maniera ironica, usi e costumi di chi era stato fanciullo od adolescente negli anni sessanta e settanta, per mettere a contrasto quelle abitudini con quelle di chi cresce ora. Si raccontavano giochi di strada, l’uso di motorini e biciclette senza casco, il fatto che si andasse a scuola da soli già dall’età di otto anni o  che fosse lecito mangiare le cose cadute in terra o gli alberi dal frutto, senza sterilizzare ogni cosa con l’amuchina.

 

Un mondo dove, con i criteri di oggi, sarebbe impossibile sopravvivere, perlomeno nella percezione dei genitori moderni, di cui io sono uno (e non nascondo i momenti di panico quando la figlia grande non risponde immediatamente al telefono). E provengo da una generazione che ha imparato a non cadere dagli alberi arrampicandocisi sopra e come fare a usare una bici a furia di ginocchia sbucciate.

 

Nel 2006, Tim Gill, un esperto inglese di societá ed infanzia, ha pubblicato un breve saggio dove esamina questa trasformazione della avversione al rischio (“No Fear. Growing up in a risk adverse society”). Il libro riporta una ricerca finanziata dalla Calouste Gulbenkian Foundation su come l’attitudine al rischio sia cambiata negli ultimi decenni nel contesto di come il tempo libero delle nuove generazioni viene gestito, da autorita’e famiglie.

 

Piú nel dettaglio, Il libro di Tim Gill descrive l’atteggiamento di fronte al rischio e di come l’introduzione al ‘mestiere del vivere’, anche con i suoi pericoli, abbia alterato la maniera in cui vengono costruiti gli spazi pubblici, i parchi giochi per i bambini e di come questa avversione al rischio si sia estesa anche negli ambiti di altre interazioni umane. Dalla ricerca, venne fuori, per esempio, che  l’etá media in cui i ragazzi vanno in un negozio da soli è passato nel Regno Unito, paese a cui la sua ricerca fa riferimento, da 7 a 10 anni nello spazio di due decenni e solo un bambino su dieci va a scuola da solo quando ha otto anni, contro otto bambini su dieci degli anni Ottanta. Per non tacere della politica dichiarata, nella costruzione di spazi gioco, di ogni forma di potenziale pericolo e rischio, non solo per evitare danni ai bambini, ma anche per non esporsi a cause civili da parte delle autoritá locali e scolastiche.

 

E questa forma di avversione al rischio si è estesa non solo allo spazio fisico ma anche a quello virtuale, i social e internet. Il ritratto che ne viene fuori è quello di un profondo cambiamento nella psicologia collettiva, un fenomeno globale che non si ferma alla maniera in cui l’infanzia viene iperprotetta ma che, nei 15 anni dalla pubblicazione del libro di Gill, è diventata mentalitá corrente, di una avversione al rischio in tantissime sfere, ma, in altre, con una forma di dicotomia/schizofrenia sociale, si accettano rischi enormi ed inquantificabili (penso alla dottrina dei no-vax od agli investimenti in cryptomonete da nomi e profili di rischio implausibili).

 

Il fatto sicuro è che, collettivamente, abbiamo paura di esperienze, come giocare o esplorare il territorio, che non ci hanno mai piegato come razza umana, essenzialmente legate ai riti di trasformazione della nostra psicologia (ovvero il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza ed all’etá adulta), al nostro senso di indipendenza, al sentirsi padroni di quel piccolo spazio di mondo, dal cortile sotto casa, al quartiere, fino alla prima volta che si sale sopra un autobus od un treno da soli. A partire ai giochi dei bambini, dove abbiamo estratto ogni tipo di rischio, a parte quello del Lego che viene abbandonato sul pavimento a tiro di piede (i genitori che devono andare a controllare i figli con le luci soffuse delle loro camerette sanno di cosa parlo).

 

In questi decenni, sembriamo aver abdicato quella cultura innata di sopravvivenza al rischio ed all’incertezza, che ci ha reso quello che siamo, collettivamente, ad un bisogno di una protezione onnipresente, resa possibile dalla tecnologia, dalla geolocalizzazione e dal bip continuo che esala da tutte le tecnologie che ci portiamo dietro. Siamo diventati avversi al rischio, perlomeno nel mondo fisico. Mentre Tim Gill, nel suo libro, racconta di un approccio dove bisogna reintrodurre rischi misurati e calcolati nelle vite dei nostri figli. Anche perché, sorpresa, anche nel mondo ovattato i ragazzi cercano allora in rete, nel mondo virtuale, vie di fuga. O, spesso, come molti studi riportati nel libro riportano, spazi propri, un angolo della casa, un campo dietro la scuola, cantieri abbandonati. Perché la riduzione del rischio imposta dalle regole e dalla cultura della azione legale, crea una mistificazione che si possa vivere un mondo dove non esistono pericoli o un mondo dove la soglia di accettazione del dolore, sia fisico che emotivo, si sia appiattita al livello della paura, del timore del dolore stesso.

 

Un mondo a rischio zero. Che è anche un mondo che non cambia e cresce, che non matura. Ed un mondo che è una illusione. Non corrisponde alla natura delle cose e a quel risultato di crescita educativa e morale che ci permette di fare scelte, a volte, accettando che una decisione non sia quella perfetta. Un mondo dove nessuno puó fallire è un mondo dove tutti falliscono, perché viene eliminato dal DNA della societá, o di alcuni tipi di societá, l’osarci, nonostante tutti i possibili calcoli a priori.

 

Rileggendo Gill, dopo un anno e mezzo della pandemia, non ho potuto che ripensare al concetto, usato da Mario Draghi per parlare delle riaperture dei negozi, nelle more delle regole del Covid-19, del rischio ragionato. O, come si dice nel mondo della finanza, un rischio accettato. Ovvero, l’ammontare di distorzione e di volatilita’ rispetto ad un risultato atteso che riteniamo accettabile, per permettere ad altre cose di accadere (come la crescita economica, creazione di lavoro, offerta educativa). In finanza, spesso, questo rischio accettato viene quantificato come limite, come un Value At Risk, o, in soldoni, quanto posso permettermi di perdere in un singolo periodo di osservazione dei mercati senza soffrirne in maniera insostenibile.

 

Ma il concetto di rischio accettato, o, come si dice nella dottrina del risk management, dell’appetito di rischio, è alla base del funzionamento dell’economia e della societa’. Di ogni tipo di societa’. In un articolo recente pubblicato sul sito www.aeon.co, il professor Ian Scoones, dell’Institute of Development Studies, ha comparato banchieri occidentali e pastori etiopi, proprio sul tema della gestione di rischi estremi e di grandi volatilita’, per chi lavora in finanza, dei mercati, per i pastori delle steppe africane, del clima.

 

E non è una sorpresa che il risultato di questa analisi di comparazione antropologica sia stata che banchieri e pastori riescono a gestire bene rischi complessi perché, prima di tutto, hanno ben chiaro il loro limite di tolleranza, e di accettazione di eventi estremi. Allo stesso tempo, l’acume del finanziere e del nomade ha una caratteristica comune, quella di saper leggere gli eventi, i segnali, di tempeste in arrivo, o di episodi di volatilitá su certi mercati. Bilanciando ed usando l’esperienza accumulata nel gestire le tempeste di breve periodo per aggiustare il tiro delle strategie di lungo corso. Che non vuol dire eliminare il rischio dalle loro vite o dalle loro occupazioni, ma significa farne parte integrante del processo decisionale.

 

Il rischio zero non esiste e la lezione di questi mesi di pandemia è che viviamo in tempi in cui la trasformazione societaria é accelerata in maniera spasmodica, e con essa l’ansietá creata da eventi estremi, sicuramente, ma anche dall’eccesso di sensazionalismo e di generalizzazione di casi isolati o dall’uso non adeguato di informazioni statistiche. Come si è osservato nell’uso che i media hanno fatto dei casi di embolia ed altri effetti negativi in concomitanza delle vaccinazioni, facendo e disfacendo correlazioni senza il beneficio della ricerca scientifica, se non quella istantanea e senza contesto. Senza togliere nulla al dolore ed alla preoccupazione di chi rimane affetto, direttamente, o negli affetti da casi anche fatali di reazioni.

 

Probabilmente, la grande lezione di questo periodo é che il rischio ‘zero’ non esiste, ma esistono strategie per gestire il rischio marginale a cui ci esponiamo. Una lezione che avevamo gia’ vissuto durante la grande crisi finanziaria del 2008, quando siamo arrivati, negli anni successivi, fino al 2012, molto vicini a crisi finanziarie e sociali irrecuperabili.

 

L’incertezza enorme generata dal Covid-19  é stata un viatico, dolorosamente provvidenziale, verso un mondo dove tanti altri rischi dovranno essere affrontati, da quello del cambiamento climatico, alla mutevole trasformazione degli assetti finanziari e commerciali globali. All’incertezza portata dalla spinta verso l’aumento di tecnologia e di virtualita’ nella nostra vita.

 

Ci aspettano anni di grandi cambiamenti e di rivoluzioni, dove decisioni saranno prese su quali rischi e quali trade-off debbano essere accettati, in una continua e, si spera, salutare sospensione fra decisioni e sentieri di sviluppo ed evoluzione ben diversi da quelli che avremmo pensato fino a due anni fa. Ma, come spiega Tim Gill, bisogna che questa fase di transizione sia un’occasione per creare una societa’ di persone che allo stesso tempo ‘abbiano qualche forma di controllo sulle proprie azioni di lungo periodo ma che, allo stesso tempo, sappiano convivere con le conseguenze delle stesse’. In questa dialettica fra accettazione dei rischi e visione di lungo periodo e di creazione di una corazza sia psicologica che sociale, si nasconde la ricetta per un futuro migliore. Per i nostri figli, come dice Tim Gill, ergo anche per noi.